Altri fantasmi.

di CARLA PERUGINI.

Y estoy viendo tu larguísima trenza que dejas libre al levantarte, como un recuerdo de tus años de muchacha.

Julio Cortázar, La abuela[1]

Una splendida poesia di Julio Cortázar, che ho scoperto grazie a un mio coltissimo amico milanese, mi ha fatto ripensare a un’altra figura scomparsa fra i mestieri di un tempo: quella della capera.

Non assimilabile alla parrucchiera moderna, perché priva d’un proprio negozio, di collaboratori, o di prestazioni accessorie quali le attuali cure delle mani o dei piedi, tanto meno d’un orario di lavoro, tutta dedita a un unico, sovrano elemento del corpo umano, ‘a capa, la professionista del capello si recava a casa delle signore che abbisognavano della sua opera, munita di una borsetta con gli attrezzi del mestiere. Mi auguro, anche se ignoro la verità, che ognuna di esse si lasciasse acconciare con un pettine proprio, visto che a quel  tempo la diffusa mancanza d’igiene faceva sì che vari insettini zompettassero da un individuo all’altro. Nel malaugurato incontro con pidocchi o simili, ci si affidava al “pettine stretto”, che arava le capigliature di grandi e piccini senza che ci si sentisse per questo degli appestati, vista l’estrema facilità con cui essi si trasmettevano in tutti i luoghi chiusi, scuole comprese.

Mia nonna Elvira, ieratica e composta, i piedi su uno sgabellino, attendeva la capera seduta al centro della stanza da letto, con una delle sue tante bellissime mantelline bianche, con ricami e trafori, a proteggersi le spalle. Un paio di loro ho conservato fra le mie cose, dopo la sua morte.

Ella, così preparata, porgeva la candida, argentea capigliatura alle esperte mani della donna, che, infilandosi fra i capelli, provvedevano a scioglierle il tuppo, dal quale cascava, come un mobile serpente, una lunga treccia bianca. Poi, era tutto uno sbrogliare, un pettinare, un lisciare, un attorcigliare ancora una volta in una nuova treccia, subito infilata in un fiammante tuppo. Rivedo le mani della capera che evitavano che i capelli caduti finissero a terra, facendone dei minuscoli rotolini di cui non ricordo la destinazione. Visto che, dopo la scomparsa della nonna, la figlia che viveva con lei poté finalmente gettar via un’eredità di pezzetti di spago, mozziconi di candele, bottoni spaiati, forcine storte e foglietti ingialliti accuratamente conservati nei suoi cassetti, non mi meraviglierei se ci avesse ritrovato pure qualche matassina di capelli.

Quanto tempo è passato da allora… Adesso, cara nonna, sono diventata una tua coetanea.

Elvira era nata nell’Ottocento. Nell’Ottocento! Non so se è più terrificante o prodigioso che io, bambina del secolo scorso, abbia avuto una nonna nata due secoli fa!

[1] “E guardo adesso la lunghissima tua treccia, lasciata libera nell’alzarti, come un ricordo dei tuoi anni di ragazza”, Julio Cortázar, La nonna.

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