di GENEROSO PICONE **
Nei mesi che ostinatamente lui non voleva fossero gli ultimi della sua vita, Mario Cesa ha fronteggiato il male implacabile che l’affliggeva con uno straordinario attivismo. In poco più di un anno ha visto pubblicato quattro cd da parte di Ema Vinci Contemporanea, tre di volumi con suoi brani eseguiti dagli amici artisti compagni di viaggio – da Roberto Fabbriciani a Bruno Canino – e uno titolato “Cum luces matre” in cui c’è più che un omaggio all’amata madre. Nonostante le strazianti sedute mattutine in ospedale, lavorava nella sua casa-laboratorio, quando poteva con ritmi “da metalmeccanico” diceva compiaciuto, per rispettare le scadenze delle consegne che comunque l’impegnavano e nell’ansia adrenalinica di metter ordine, catalogare, esporre il risultato di una ricerca costante, attenta e irrefrenabile. Era la sua “Narrazione allotropica”, come indica un suo brano: terminologia assai scientifica, l’allotropia dal lessico chimico segnala la persistenza a “catturare gesti, segni e sommovimenti della realtà che mi circonda”, spiegava all’amico e quasi si scusava per i riferimenti ardui. “I brani che ho composto sono stati a lungo considerati complicati, di difficile approccio. Ne sono consapevole, ma la musica per me non è mai stata gastronomia”.

Ora che non c’è più, ora che il suo fisico asciutto, segaligno e ancora giovane negli 80 anni è stato vinto dalla crudeltà del tempo, ora che si è spento quello sguardo dietro gli occhialini tondi scuri che parevano un vezzo vintage e invece rivelavano la fastidiosa maculopatia con cui malgrado tutto aveva imparato a convivere, ora per raccontare Mario Cesa si potrebbe semplicemente e dolorosamente dire che ci ha lasciato il musicista che aveva saputo tradurre in suono il rumore del mondo. Il rumore forse scomposto ma autentico, il brusio della lezione di Roland Barthes, il fragore caotico che altro non è se non la vita. Ecco: Mario Cesa interpretava il disordine dell’esistenza e ne faceva arte.
Di sé diceva che fin da piccolo aveva avuto grande attenzione per l’espressione artistica: prima per la pittura e la scultura, quindi per la musica “e fu subito amore”. A 16 anni l’iscrizione al conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli doveva aveva studiato composizione e pianoforte con il disappunto del padre, rientrato soltanto quando lo iniziò a insegnare e a guadagnare, e il sostegno della madre, sempre la sua prima sostenitrice. Non è un caso se nel periodo del tormento e delle cure lui abbia composto pensando a lei “Cum luces matre”: le sue celebri tessere dell’enigma nel gioco combinatorio interrogano le potenzialità delle varianti e trovano la verità del fine, il simbolo della luce della giornata e della vita in una dimensione ancestrale che esalta il rapporto di amore e di conflitto su cui si basa la dialettica tra madre e figlio. Il suono di “Cum luces matre” ne scandisce i momenti, nella ripetitività ricorrente dei timbri, nel “lavoro motivico” di cui parlava Arnold Schoenberg.
La madre, la propria madre. Quale altro argomento se non quello del ricordo di una madre può prestarsi a ripercorrere il legame originario che lo porta a trovare il punto di partenza del suo itinerario culturale, la ragione dell’ossessione verso la materialità del suono, la dissonanza percussiva, la reiterazione dei ritmi e quindi viaggiare nelle possibilità del molteplice, come Gianvincenzo Cresta sottolinea nel suo saggio del 2001 sulla musica di Cesa? Il viaggio a-temporale pare richiudersi nella circolarità di un tragitto. Si nasce da una madre, se ne impara la lingua dei sentimenti, ci si distanzia e alla fine si ritorna a lei. Anche in sua assenza, soprattutto quando non c’è più. Un viaggio difficile e complicato, del resto ancora Schoenberg avvertiva che “se qualcuno intraprende un viaggio per raccontare qualcosa, non sceglie la linea più diretta”.

Dopo la formazione napoletana, Mario Cesa aveva insegnato al “Cimarosa” di Avellino, consegnandosi allo studio del folklore e delle melodie popolari irpine trascritte ne “Le possibilità del molteplice”. Una pagina figlia della lezione dodecafonica di Arnold Schoenberg, sottolinea Cresta “La mia musica nasce proprio dall’ascolto della mia terra. – spiegava lui – In brani come “Pellegrinaggio” o “Feste paesane” le occasioni della tradizione popolare mi hanno fornito materiale importante per la mia ricerca. Un personaggio come Carlo Gesualdo, il principe dei Madrigali, continua a rappresentare un riferimento e la “Canzone” che gli ha dedicato Bruno Canino ne è la testimonianza alta”.
Apprezzato da Luigi Nono, Canino, Fabbriciani, Luis Bacalov fino a Elio delle Storie tese, insomma dal più accreditato milieu dell’avanguardia italiana, il suo talento fu conosciuto dal mondo durante l’irripetuta stagione di “Musica in Irpinia”, la rassegna organizzata per più di 10 anni dagli amici e compagni dell’Arci, Gaetano Vardaro, Giovanni De Luca, Giuliana Freda. Ad Avellino si esibirono Claudio Abbado, Salvatore Accardo, Luciano Berio, Michele campanella, Bruno Canino, Giorgio Gaslini, Severino Gazzelloni, Giovanna Marini, Luigi Nono, Maurizio Pollini, tanti altri ancora e Mario Cesa confessava di essere stato fortunato a vivere quel periodo: “Persone eccezionali e umili, arrivavano da grandi artisti e andavano via da veri amici. Allora succedeva così, oggi no e lo dico con estremo dispiacere”. Nuria Nono, vedova di Luigi Nono e figlia di Schoenberg, ritornata ad Avellino riviveva lo stupore che gli trasmetteva il marito dopo i suoi viaggi e i suoi concerti in una città strana del Sud che mostrava di credere nella cultura.

Il suo progetto di sperimentazione musicale conquistò l’apprezzamento generale con i concerti alla “Carnegie Hall” di New York, al “Colon” di Buenos Aires, al “Gasteig” di Monaco, con i suoi brani eseguiti in Russia, Cina, Brasile, Canada, Messico, Cuba, con la partecipazione alla Biennale di Venezia. In Irpinia, nella sua terra che – a contraddire nel provincialismo grottesco il suo motto – preferiva la gastronomia dei suoni alla loro graffiante autenticità, per 26 anni aveva diretto la rassegna “Musica in Irpinia” all’Abbazia del Loreto di Mercogliano. Poi per intervenute divergenze di gestione culturale lasciò, più o meno sbattendo la porta. Questo giusto per dire del suo carattere. Per una stagione era stato nel consiglio di amministrazione del Teatro “Carlo Gesualdo” di Avellino, nominato dal sindaco Antonio Di Nunno: poi sostituito, lui e gli altri, da chi subentrò a Piazza del Popolo senza neanche una comunicazione.
Qualche anno fa, alla domanda “fosse andato via da Avellino chissà oggi che cosa si potrebbe dire”, rispose che “no, non sarebbe cambiato niente perché in fondo Avellino, la mia città, non è stata mai per me una gabbia. Nel senso che da qui, dall’Irpinia, ho avuto la possibilità di stabilire collegamenti e contatti, di far conoscere la mia musica, di mantenere rapporti importanti. In fondo qui gli stimoli non mi sono mai mancati”. Amava la sua terra, e non smetteva di ascoltarne il suono, la festa come allegoria della società, la cerimonia che trasfigura il reale e crea mondi possibili, etici e musicali: dai rumori naturali del pianto e del riso alle musiche. “L’humus popolare per me rappresenta una linfa insostituibile, un sostrato antropologico fondamentale. Non si può cancellare o dimenticare il luogo in cui si è nati, noi siamo i figli di Gesualdo, di Francesco De Sanctis, di Guido Dorso e imparando la lezione dobbiamo proseguire sulle loro tracce. Così si dimostra di voler bene all’Irpinia”.

Le tessere che ricorrono nella sua produzione rimescolano i tempi e propongono l’alchimia di soluzioni sempre originali, fanno riemergere suoni e ritmi legati alla memoria. “Si fondono con i segni della contemporaneità, inciampano nella sua trama e vanno a comporre, o ricomporre, un racconto del caos”. Soprattutto, “Le tessere dell’enigma” costituiscono un esempio importante della capacità di sperimentare l’intera gamma di potenzialità del suono. E’ il senso della sua sfida artistica e civile, di ambizione e di orgoglio. Quello che lui avrebbe voluto rimanesse in eredità.
** SU IL MATTINO DEL 13 GIUGNO 2021