Dietro la finestra

Racconto di FRANCO FESTA.

Lo vide passare per caso, mentre si affacciava alla finestra. O meglio mentre spostava la tenda, per fare entrare aria fresca. Affacciarsi no, non lo faceva da tempo. Da quando? Non sapeva rispondere alla domanda, e non se l’era mai posta. Affacciarsi era costruire un legame con il mondo di fuori, curiosare nella vita che scorreva lì sotto, mettersi in gioco. E lei  non aveva più questa voglia. Era solo accaduto per caso, lui aveva occupato, imprevisto, l’angolo di visuale tra il cielo, così pulito quella mattina, e lo spicchio del palazzo di fronte. Era capitato lì, sulla retina,  ma a pensarci era come se non fosse stato un caso, era come se lei lo avesse atteso, e lui era apparso davvero.  Quanto tempo era durato? Poco, pochissimo, poi il cielo aveva rioccupato lo spazio, l’angolo del palazzo era svanito, insieme a lui. Eppure la sua figura continuava a riempire i suoi occhi, e non c’era più il cielo, e neppure il palazzo. Cosa, di lui? Una strana maglia gialla estiva, un cappellino bianco ridicolo, con una visiera troppo grande, e…Non ricordava più nulla. Troppo poco, allora? No, troppo.  Perché quei particolari che non riusciva a rimettere in ordine riportavano dritto a lui. E la cosa buffa, ora, era che non riusciva a ricordare il suo volto, anzi, non era neppure sicura di averlo visto. Ma era lui che aveva rotto quella mattina  il tempo della sua vita, e questo era accaduto proprio in quel breve istante alla finestra. E in fondo gli occhi non c’entravano nulla. Era il cuore che lo aveva davvero riconosciuto, il cuore che si era quasi fermato, come sul ciglio di un burrone, e ora faticava a riprendere il suo ritmo normale. Proprio come era accaduto altre volte, dopo uno sguardo profondo colmo di silenzio, dopo un bacio appassionato. Rare volte. Ma quando era stato l’ultimo bacio? Una vita fa, più di una vita fa, in un’altra vita. O forse lo aveva solo sognato, rincorso, immaginato, e non c’era mai stato.

Girò appena la testa, anche per calmarsi, ma soprattutto per cercarlo ancora. Era come se lo spazio intorno risuonasse ancora della sua presenza, come se l’albero di susine vicino, la panchina scheggiata più lontana, l’angolo in fondo in cui la vista si perdeva fossero stati segnati dal suo passaggio; e non erano più lo stesso albero, la stessa panchina, lo stesso angolo. E non era solo lo spazio ad essere turbato, era pure il tempo. Poteva essere un qualunque istante quello in cui ora si trovava, e lui poteva riapparire con i suoi libri sotto il  braccio, con la sua acne, con il suo sguardo furioso: proprio come quando lo aveva conosciuto, e anche allora tutto si era fermato, capovolto, smarrito. Oppure no, poteva piovere, all’improvviso, e lui si sarebbe allontanato, fradicio di pioggia, senza dire una sola parola. Ancora una volta addio, ancora una volta riappariva quell’attimo, che avrebbe dovuto essere unico, irripetibile ed invece era rotolato nella sua vita tante volte, in momenti impensabili, di schianto o lentamente, ma lancinante sempre, a riaprire una ferita mai chiusa.

Guardò verso il cielo, cercando nuvole scure, sorrise di se stessa. Poi, proprio quando abbassò lo sguardo, lo rivide. Ascoltava qualcosa nelle cuffie, ciondolava appena camminando, e sembrava rapito da ciò che stava ascoltando. Si fece appena indietro, anche se era impossibile che la vedesse. E non per la distanza, ma perché sapeva che non era cambiato. Qualunque cosa risuonasse nelle cuffie, quella musica o quelle parole lo tiravano via dalle mediocrità del giorno, lo trasportavano altrove. Era sempre stato così, non poteva essere cambiato. C’erano stati momenti, nelle loro serali passeggiate in auto, in cui lo perdeva. Anche se avevano appena fatto l’amore, anche se avevano appena vissuto momenti di estasi, anche se la felicità era sembrata traboccare in ogni punto di quel ristretto spazio, e aveva dovuto abbassare un finestrino per non esserne travolta, bastava che partisse una canzone o risuonasse una voce dalla radio, e qualcosa brillava all’improvviso nei suoi occhi, come se scattasse un interruttore segreto e sconosciuto, e lui non era più lì, con lei. Quando finalmente aveva capito e aveva smesso di soffrire per quella che all’inizio era apparsa una fuga, allora aveva cercato di seguirlo, lasciando che quella canzone, o quelle parole, la penetrassero, come un sesso voluttuoso, con la stessa furiosa violenza. Ma solo raramente vi era riuscita, e per frammenti. Almeno però aveva trovato pace, non si era sentita tradita, come aveva pensato le prime volte.  Una sottile invidia, quello sì, quella non era mai riuscita a eliminarla, ma non era stato il sentimento prevalente. Era l’ammirazione per lui che la incantava, la consapevolezza che il mondo interiore di lui era tutto ancora da scoprire, e che dunque era davvero un essere singolare, e che dunque la vita senza di lui non aveva senso.

Non era andata così, la vita  un senso lo aveva trovato lo stesso anche senza di lui, anche se lui era sparito. C’ era voluto tempo, ma era successo. E per un lungo periodo neppure per sbaglio gli era tornato alla mente, era fuori, altrove, lontano, assente, cancellato. E dunque quei pensieri erano stati solo forzature adolescenziali, allora vissuti come indimenticabili e definitivi e invece lacrimosi e provvisori. Sorrideva, ora, del desiderio straziante di morte che l’aveva presa la sera che lui era sparito sotto la pioggia senza una parola, perdonava il dolore implacabile , che allora l’aveva invasa, la certezza acutissima che senza di lui nulla avesse senso. Ma non era andata così, non andava mai così. Aveva vinto il ritmo misterioso di sopravvivenza  che sempre muove la natura, la dimensione ordinaria, avrebbe potuto chiamarla, che tutto regola e tutto rimette al suo posto. E’ il passare del tempo che tutto cancella, così dicevano. Ma ora, ora che lui era apparso e riapparso in quell’angolo dell’occhio, e non andava via dalla mente, anche se davvero non c’era più, davvero era scomparso, e forse per sempre, ora lei sapeva che il tempo non cancellava nulla, ora sapeva che erano l’ ipocrisia e la pietà a consentire alla vita di andare avanti, ora sapeva che l’ amore era più forte della natura ma destinato ad essere sconfitto sempre. Troppo insopportabile il carico profondo di verità che reggeva, troppo tumultuoso il suo respiro, troppo elevato il desiderio che suscitava,  troppo audace il suo progetto, troppo libero il suo sguardo. No, la vita non poteva consentirlo. Per questo l’amore durava poco, per questo diventava subito altro, per questo si accucciava silenzioso a non turbare le cose di ogni giorno che scorrevano uguali, per questo rimaneva muto, anche se in ascolto, e alla fine sembrava sparito, o svanito, o morto. La sua resa era la condizione perché la vita sviluppasse la sua trama, spesso serena, qualche volta meravigliosa, altre volte dolorosa, alla fine non priva di un senso. Questa era stata la sua vita, simile alla vita di tanti. Bisognava solo fare un passo indietro, arretrare verso la stanza, smetterla di guardare fuori  e tutto sarebbe ritornato al suo posto, e la normale tranquillità di ogni giorno sarebbe tornata a farle compagnia. E lo fece, si spostò indietro, toccò appena l’imposta per chiuderla, socchiuse appena gli occhi, li riapri, guardò fuori per l’ultima volta. E un cappellino bianco, una vivace maglia gialla, soprattutto uno sguardo furioso, alto verso il cielo,  che era per lei, solo per lei – ne era certa -, la bloccarono, la inchiodarono e insieme la fecero precipitare, la presero tra le braccia e ancora la lasciarono cadere, comunque la strapparono fuori, finalmente, dal buio in cui da anni aveva scelto di vivere.

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